Аав минь
2024

ITA:
Аав минь” (Mio padre) è un racconto breve. È il frutto di un’infatuazione profonda, ma lieve nel petto.
Bunyaa guida la sua auto al termine delle celebrazioni del Naadam, ormai una "fiera decomposta". Sta tornando a casa, alla sua iurta, situata nel cuore della Orkhon Valley, nel centro esatto della Mongolia. Alla guida del suo pickup, ha uno sguardo vispo ma fragile, vigile ma assorto. Dai sedili posteriori è visibile solo una frazione del suo lato sinistro: la mano, il braccio, la spalla, il collo, il mento, la bocca, il naso, lo zigomo, l'occhio e l'orecchio.
Lo si osserva in religioso silenzio. La macchina gracchia mentre supera i massi, le sospensioni cigolano, ma il rumore prodotto dal contatto con la terra è stranamente cullante.
Bunyaa canta "Аав минь", un brano tradizionale mongolo. Ha una voce solenne e struggente.
Per tutto il viaggio, ossessivamente, si cerca il suo sguardo. Si cambia più volte sedile per intercettarlo, ma lui è concentrato sulla strada nascosta dall'erba. Solo per pochi secondi, quando abbassa il parasole, fortuitamente, il desiderio si avvera. Bunyaa forse vuole solo vedere cosa si lascia alle spalle, o forse controllare che i passeggeri si siano finalmente abbandonati al costante cigolio della vettura. Scopre invece uno sguardo fisso su di lui; è uno scambio di pochi secondi, di grande tenerezza.
Di Bunyaa ci si innamora quattro volte:
Mentre guida, solitario, con il mondo tra le mani e il volante.
Quando intona la sua voce.
Quando i suoi occhi incontrano la telecamera.
Quando si svela il tenero testo dedicato al padre, alle radici della sua terra e del suo popolo.
Quei suoi occhi, rassicuranti e sconvolgenti, non li si vuole – né li si può – lasciare. Si cerca di catturarli con uno scatto continuo, ma non serve a nulla. Questo amore e questa onestà, che Bunyaa dona sinceramente e inconsapevolmente ai passeggeri durante il viaggio, è tutto ciò che si può portare via, fare proprio. E si spera, con un po’ di fortuna, di ritrovarli nel prossimo viaggio.

ENG:
Аав минь (My Father) is a short story. It is the result of a deep infatuation, yet light in the chest.
Bunyaa is driving his car at the end of the Naadam celebrations, now a "disheveled fair." He is returning home, to his yurt, located in the heart of the Orkhon Valley, in the exact center of Mongolia. As he drives his pickup, his gaze is lively but fragile, watchful but absorbed. From the back seats, only a fraction of his left side is visible: his hand, his arm, his shoulder, his neck, his chin, his mouth, his nose, his cheekbone, his eye, and his ear.
He is watched in reverent silence. The car rattles as it rolls over rocks, the suspension squeaks, but the sound produced by the contact with the earth is strangely soothing.
Bunyaa sings "Аав минь", a traditional Mongolian song. His voice is solemn and heart-wrenching.
Throughout the journey, his gaze is obsessively sought. Seats are changed several times in an attempt to intercept it, but he is focused on the road, hidden beneath the grass. For just a few seconds, when he lowers the sun visor, the desire is fortuitously fulfilled. Perhaps Bunyaa only wants to see what he is leaving behind, or maybe check that the passengers have finally surrendered to the constant squeaking of the vehicle. Instead, he discovers a gaze fixed on him; it is a brief exchange, full of tenderness.
You fall in love with Bunyaa four times:
When he drives, solitary, holding the world and the steering wheel in his hands.
When his voice rings out.
When his eyes meet the camera.
When the tender lyrics dedicated to his father, to the roots of his land and his people, are revealed.
His reassuring and overwhelming eyes—they are eyes you don’t want to, and cannot, let go of. You try to capture them with a continuous shot, but it’s all in vain. The love and honesty Bunyaa sincerely and unknowingly offers to his passengers during the journey are all that one can take away, make their own. And you hope, with a bit of luck, to find them again on the next journey.





L’isola che non c’è
2023


ITA:
Lo Sri Lanka raccontato da undici voci impegnate nel campo dell’arte e della cultura. Curatrici, pittrici e poetesse; fotografi, performer e galleristi. Una raccolta di esperienze singolari che prova a tracciare i confini dello “stato dell’arte” dell’isola e definire, se esiste, un terreno comune che li possa legare. Storie riunite, ricucite, che diventano in questa ricerca materia tattile attraverso degli scarti di tessuto reinterpretati.  Ritratti di una comunità silenziosa che in Italia conta più di 100.000 individui ma che rimane generalmente sconosciuta.
Ecco allora un nuovo linguaggio tessile, un nuovo alfabeto, che tenta di decifrare e documentare l’agitato presente artistico e sociale dell’isola dell’Oceano Indiano e fare luce su ipotetici futuri.

ENG:
Sri Lanka, as told by eleven voices involved in the fields of art and culture. Curators, painters, poets; photographers, performers, and gallery owners. A collection of unique experiences that seeks to trace the boundaries of the island’s "state of the art" and to define, if possible, a common ground that connects them. Stories brought together, re-stitched, becoming in this exploration a tactile medium through reinterpreted fabric scraps. Portraits of a silent community, numbering more than 100,000 people in Italy, yet largely unknown.
Thus, a new textile language emerges, a new alphabet, attempting to decipher and document the turbulent artistic and social present of the Indian Ocean island, and to shed light on possible futures.





Alfabeto tessile
Scarti tessili dall’archivio di AOD (Academy of Design)
12 x 15 cm cornice in cartone


Textile alphabet
Textile scraps from AOD archive (Academy of Design)
12 x 15 cm cardboard frame


Extract from interview to Sharmini Pereira & Sandev Handy
MMCA (Museum of Modern and Contemporary Art)

70 x 50 cm
Extract from interview to visual artist and activist Minal Naomi
70 x 50 cm

Extract from interview to the Secretary of the Italian Embassy in Colombo
70 x 50 cm

Extract from interview to painter and visual artists Anoma
50 x 70 cm
Extract from interview to Shayari de Silva & Shanika Pereira
Geoffrey Bawa & Lunuganga Trust
70 x 50 cm
L’isola che non c’è. Copertina progetto
50 x 70 cm


Sri Lanka Design festival
2-3-4 Dicembre 2022
Innovation Tower, Colombo

LINK:
Qui puoi ascoltare le testimonianze raccolte e riunite. 
https://on.soundcloud.com/6XtQEg8X7yqGwFxi6





Here lie my fears
@Hereliemyfears
Con Defne Ar
2022


ITA:
“Here lie my fears” è un corpus di esperienze legate al cancro: uno spazio digitale, un archivio sensoriale, che raccoglie storie, immagini, suoni, odori e consistenze relative al trauma della malattia. Un luogo sicuro in cui chiunque può riporre un messaggio, un segreto o un pensiero che non è riuscito a condividere. Una raccolta di ricordi di esperienze dolorose che diventano conforto per chiunque vi si veda rappresentato. È anche uno spazio di speranza e di sollievo, in cui si incoraggia la condivisione di percorsi di guarigione dai pensieri di sofferenza.
“Qui giacciono le mie paure” è rivolto a chi ha vissuto la malattia sulla propria pelle e a chi l'ha vissuta per prossimità; in famiglia, tra gli amici, nel nucleo degli affetti. Affrontare la malattia e le cure durante la pandemia è stato il motore della nascita del progetto. La malattia, vissuta direttamente o attraverso il riflesso dei propri cari, di solito tende a escludere piuttosto che a unire. Il Covid-19 ha amplificato questa condizione: 
Gli ospedali non potevano rischiare un'ulteriore e più profonda diffusione di Covid, per cui si è scelto di impedire alle persone di accompagnare i propri cari nella loro stanza per ricevere le cure e per far loro compagnia. Questa misura è stata adottata per tenere al sicuro dalla contrazione del virus una delle categorie di pazienti più “ad alto rischio”. Ma era davvero innocua? La solitudine può essere il prezzo della salute? I pazienti oncologici in tempi di normalità sperimentano già una grande debolezza e un profondo senso di solitudine. Durante la pandemia tutto è esploso nelle proporzioni. I pazienti sperimentavano e vivevano in una bolla nella bolla:
Un doppio livello di separazione dall'esterno.
Il corpo durante la malattia e il trattamento è il campo di battaglia più immediato. I sensi sono i mezzi di espressione e di comprensione che ci permettono di conoscere il mondo esterno e di capire cosa ci piace e cosa non ci piace. Sono gli occhi, la bocca, le mani, il naso e le orecchie. Senza di loro non saremmo più. E così il mondo. Il cancro sfida i sensi e questo scatena la paura nella nostra mente.
“Qui giacciono le mie paure” riunisce quindi le esperienze di trauma attraverso il senso che le caratterizza. È una scelta che mira alla riconquista del proprio corpo, senso dopo senso. Una riappropriazione, in questo esperimento, possibile solo se condivisa.

ENG:
“Here lie my fears” is a body of experiences related to cancer.
A digital space, a sensory archive, which collects stories, images, sounds, smells and textures regarding to the trauma of the disease. A safe place into which anyone can slip a message, a secret or a feeling that they were unable to share. A collection of memories of fearful experiences that become comfort for anyone who see themselves represented in them. It is also a space for hope and relief, in which the share of healing paths from the fearful thoughts is encouraged.
“Here lie my fears” is for those who have experienced the disease on their own skin, and those who lived it because of their proximity to it; in their family, among friends, in the nucleus of affection. Facing the disease and the treatments during the pandemic was the driving force behind the birth of the project. Illness, whether experienced directly or through the reflection of loved ones, usually tends to exclude rather than bring together. Covid-19 amplied this condition: Hospitals couldn’t risk a further and deeper spread of Covid, so it was a choice taken to stop people to escort their beloved ones to their room to receive treatment and to keep them company. This action was taken in order to keep one of the most “at-high-risk” categories of patients safe from the contraction of the virus. But was it truly safe? Can loneliness be the price of health? Oncology patients in normal times already experience great weakness and a deep sense of loneliness. During the pandemic everything blew up in proportions. Patients would experience and live in a bubble within a bubble:
A double-layered degree of separation from the outside.
The body during illness and treatment is the most immediate battleeld. The senses are the means of expression and understanding that allow us to get to know the outside world and to understand what we like and dislike.
They are our eyes, our mouth, our hands, our nose and our ears. Without them we would no longer be. And so, the world. Cancer challenges senses, and that does trigger fear in our mind.
“Here lie my fears” thus brings together experiences of trauma through the sense that characterizes them. It is a choice aimed at the reconquest of one’s own body, sense after sense. A re-appropriation, in this experiment, only possible if shared.





Amo noi
Con Camilla Dalmazio e la supervisione di Alina Marazzi
2023

ITA: 
Testo di Camilla Dalmazio
“Amo noi” è un tentativo, forse vano, di appropriazione e di condivisione di una memoria che non ci appartiene, attraverso il montaggio di video d’archivio familiari, che vanno dagli anni settanta sino agli anni novanta, e l’uso di una partitura di atti performativi ripetuti, che rendono carne i ricordi.
L’idea per questo corto nasce dalla volontà di esumare le immagini e i suoni di due archivi di famiglia, più precisamente della famiglia Dalmazio-Cardinale e della famiglia Perale-Ferrarini.
Il risultato è un incontro di memorie, che giustapposte ed intrecciate alle nostre riprese, danno vita alla narrazione di una nuova storia, che rimane però irrisolta e sfuggente, come l’amore mancato tra Paolo e Anna, raccontato dalla voce di Paolo Perale (padre di Filippo Perale) e impersonato da noi stessi.
L’inizio di questo incontro è segnato da un battere di piatti che accade tra i due attanti della scena (ossia Paolo e Anna, di cui prendiamo le parti) e che, come un gesto magico, apre il varco di una dimensione onirica, ed insieme scandisce il principio e la fine di tutto.
Passando attraverso un arcobaleno sbiadito e un lugubre suono di campane, entriamo in flusso di immagini che si susseguono binariamente per quasi tutto il video, in modalità split-screen, offrendo una visione duale. Queste ultime, accostate tra loro, introducono un dialogo, a tratti assurdo, tra i reperti delle due memorie; nella realtà tanto distanti tra loro, sia temporalmente che per i contenuti che portano, ma di fatto rese comunicanti.
Quello che vediamo; dentro il cimitero di Belluno, o nelle piazze della città, nel mare della Capraia, nelle terre siciliane, ai funerali, al matrimonio, o dei nostri stessi corpi in scena, nonostante non collimi mai con gli eventi narrati dalle voci fuori campo, che emergono a tratti, crea in questo scarto tra i vari elementi, delle nuove significazioni, o diverse possibili storie, che restano aperte all’interpretazione di chi guarda.
Una scena significativa, che racchiude forse il senso di questo lavoro, è quella che mostra il momento in cui gli sposi cercano di stappare una bottiglia di spumante, al pranzo del matrimonio. In tutto quell estenuante sforzo si contiene, metaforicamente, il nostro tentativo di arrivare ad afferrare una verità, o di raggiungere una soluzione tra le memorie, che culmina però in una rottura, nel punto in cui le immagini si fanno più veloci e si appropriano dello schermo, nella sua interezza, in una sequenza bulimica e frenetica, e i nostri corpi si contorcono vorticando, senza però mai toccarsi.
Un ultimo battito di piatti interrompe la pioggia di immagini e ci riporta su di noi, in carne ed ossa, che ci guardiamo, uno di fronte all’altra, in piedi, reggendo questo sguardo solo per poco, per poi perderci nella luce del proiettore.

ENG:
Text BY Camilla Dalmazio
"Amo noi" is perhaps a vain attempt at appropriating and sharing a memory that does not belong to us, through the editing of family archive videos spanning from the 1970s to the 1990s, and the use of a score of repeated performative acts that embody these memories.
The idea for this short film stems from the desire to exhume the images and sounds of two family archives, specifically the Dalmazio-Cardinale family and the Perale-Ferrarini family.
The result is a convergence of memories which, juxtaposed and intertwined with our own footage, create the narrative of a new story—one that remains unresolved and elusive, like the unfulfilled love between Paolo and Anna, narrated by the voice of Paolo Perale (father of Filippo Perale) and portrayed by ourselves.
The beginning of this encounter is marked by the clash of cymbals between the two characters (Paolo and Anna, whose roles we take on), a magical gesture that opens the portal to a dreamlike dimension, while also marking the beginning and the end of everything.
Passing through a faded rainbow and the ominous sound of bells, we enter a flow of images that follow each other in binary fashion throughout most of the video, using split-screen to offer a dual perspective. These images, placed side by side, introduce a dialogue—at times absurd—between the relics of the two memories; in reality, so distant from each other, both temporally and in content, but made to communicate nonetheless.
What we see—whether inside the Belluno cemetery, in the city squares, in the sea of Capraia, in the Sicilian lands, at funerals, weddings, or our own bodies on stage—never quite aligns with the events narrated by the occasional voiceovers. Yet, in the dissonance between these elements, new meanings or different possible stories are created, left open to the viewer’s interpretation.
One significant scene, perhaps encapsulating the essence of this work, shows the moment when the newlyweds struggle to open a bottle of sparkling wine at the wedding lunch. In that exhausting effort lies, metaphorically, our attempt to grasp a truth or to reach a resolution between the memories. However, this culminates in a rupture, as the images accelerate and take over the screen in its entirety in a frantic, bulimic sequence, while our bodies contort and whirl without ever touching.
A final cymbal clash interrupts the deluge of images, bringing us back to ourselves, in flesh and blood, staring at each other, standing face to face, holding each other's gaze for just a moment before we disappear into the light of the projector.





Evonimo
2024

ITA:  
Scatti rubati ad una pianta da siepe che amoreggia tra sè e sè. 
All’entrata di un giardino privato sull’Isola di Capraia questo esemplare di Euonymus Japonica Verde si inerpica in una vertiginosa e placida danza.
I propietari del giardino ne hanno memoria da sempre; appare in una foto di famiglia del 1971. 

ENG:
Stolen snapshots of a plant frolicking with itself.
At the entrance to a private garden on Capraia Island  this specimen of Euonymus Japonica Verde soars in a giddy, placid sensual dance.
The garden's owners have remembered it for as long as they can recall; it appears in a 1971 family photo.





Le stampe sono disponibili per tutte le foto. Vengono spedite in tubo per poster. Per informazioni contattare via e-mail o ig.
Prints are available for any photo. Shipped in a poster tube. Please contact via e-mail or ig for information.



Sipario
2019
In collaborazione con Pottery Lab - Torino - e Imap Casa - Belluno.







Diario di bordo
Immagini scattate con camera compatta analogica Olympus MJU III 35mm


2024. Mongolia _ Ulan Batoor, Orkohon valley



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Diario di bordo
Immagini scattate con camera compatta analogica Olympus MJU III 35mm


2023. India _ New Delhi, Agra, Jaipur, Mandawa 


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progetti/work